 
Spesso al movimento si contesta di non “incidere”, di non aver capito che la politica è mediazione ed accordo con altri, di non aver fatto il cosiddetto “accordo” con il pd.
Quasi sempre queste contestazioni mi sono state fatte in Calabria e da meridionali. Ho provato a dar ragione di ciò, domandandomi quale fattore antropologico e/o culturale potesse e possa spiegare questa vocazione meridionale e calabrese in particolare a credere che qualunque cambiamento della realtà politica e sociale sia conseguibile solo stando al governo, solo “comandando”.
La memoria mi sollecita riflessioni che tirano in ballo Tomasi di Lampedusa, Salvemini, Sturzo od altri ancora, intellettuali per cui l’incapacità dei meridionali di essere opposizione avrebbe ragioni storiche e culturali ben precise.
Ma c’è anche altro: col pretesto di poter cambiare solo stando nella stanza dei bottoni, si legittima il proprio non cambiamento, il proprio farisaico gridare, far finta di indignarsi, per poi tornare esattamente a fare come si faceva prima, all’ombra del potere.
Si cambia, infatti, grazie ad una convinzione interiore che ti obbliga moralmente prima che giuridicamente, convinzione che Kant chiamava “legge morale” e che per tanti è il “dovere”.
Non, tuttavia, un dovere impostoci da altri, da convenzioni sociali o leggi esterne: un dovere che non pesa, che si segue e basta, senza sperare in gratificazioni o ricompense. Un dovere che coincide con il giusto, con ciò che, ragionando, vorremmo fosse da tutti fatto a tutti, noi in primis.
Ora, frequentemente, chi non riesce a trovare in sé, liberamente, la sufficiente concentrazione per arrivare a ciò che è proprio dovere fare, attribuisce all’assenza di prescrizione esterna la ragione del proprio insuccesso, della propria fragilità, sperando che debba essere l’altro ad assumere l’onere di una scelta che invece non può che essere della singola coscienza.
Questo processo di deresponsabilizzazione comodo e facile si accompagna, storicamente, ad un fenomeno che in Italia conosciamo assai bene: la produzione ipertrofica di una precettistica che deve sostituire una volontà razionalmente non disposta ad assumersi il rischio della scelta, giacché per questa volontà è preferibile rimanere minore a vita, incapace di scegliere perché incapace di intendere e volere. Ma anche di espiare, di scontare una pena, perché si preferisce rimanere irresponsabili.
Perché dunque al sud cerchiamo di cambiare arrivando al governo?
Perché non abbiamo la volontà di cambiare veramente, dall’interno delle nostre coscienze, autoassolvendoci per ogni nostro fallimento futuro. E finora è sempre stato così, votando spessissimo, i meridionali, per chi era governo, potere. E questo spiega anche la propensione precipuamente meridionale a “trasformarsi”, a cambiare casacca, a patto che ciò significhi ingresso nell’area di governo.
E questo non significa non ammettere che la politica sia mediazione, dialogo, confronto e riflessione. Lo spiego meglio con un esempio: il vincolo dei due mandati. Non so se due o tre mandati siano la soluzione giusta, potrebbe essere uno solo anche la risposta giusta al problema della limitazione dell’attività politica rappresentativa retribuita.
Ma se qualcuno avesse voluto effettivamente trovare un’intesa con noi, avrebbe accettato il principio per cui la politica non può essere un lavoro che garantisce potere e sistemazione.
A quel punto si poteva ragionare di mandati o di anni: era secondario giacché era stato accettato il principio.
Ma è proprio sui principi che l’accordo non si può avere con certi soggetti. Fin quando non riconoscono quali siano i loro doveri.   (Senatore cittadino Nicola Morra)
 
		        
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